La Corte Costituzionale con la Sentenza n. 24 del 2019 è intervenuta sul delicato tema delle misure di prevenzione personali – previste all’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) all’art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), e agli articoli 4, comma 1, lettera c) e 16 del D. Lgs. N. 159 del 2011(codice dell’antimafia) – ridisegnando i margini di operatività del sistema connesso alla loro applicazione nei confronti dei soggetti persone fisiche definiti “pericolosi generici”.
Nel caso alla sua attenzione la Corte ha affermato che è illegittimo assoggettare alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e alla misura di prevenzione della confisca dei beni le persone che “debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dedite a traffici delittuosi” poiché tale assunto viene reputato troppo generico e di conseguenza viola il principio di legalità; la ratio di tale decisione si fonda sull’assunto secondo cui l’espressione “traffici delittuosi” non è in grado di indicare con sufficiente precisione quali comportamenti criminosi possano dar luogo all’applicazione della sorveglianza speciale o della confisca dei beni e quindi da ciò deriverebbe la violazione del principio di legalità il quale prevede che ogni misura restrittiva della libertà personale o della proprietà dell’individuo si basi su di una legge che ne indichi con scrupolosità i presupposti di applicazione[1].
La Corte ha invece ritenuto sufficientemente precise, e dunque conformi al principio di legalità, le disposizioni che consentono di applicare le stesse misure a chi vive abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose. Secondo la giurisprudenza più recente, infatti, le misure in questione possono essere applicate solo a chi, sulla base di precisi elementi di fatto, si può ritenere che abbia commesso, in un significativo arco temporale, delitti fonte di profitti che abbiano costituito il suo unico reddito, o quanto meno una componete significativa del reddito. Tutti questi elementi devono dunque essere dimostrati dal pubblico ministero o dall’autorità di polizia nel procedimento di prevenzione affinché il Tribunale possa applicare la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza o la confisca dei beni presumibilmente acquistati grazie alle attività delittuose e dei quali il soggetto non possa giustificare l’origine lecita. La Corte ha infine precisato che la sentenza non tocca le norme che consentono di applicare misure di prevenzione nei confronti degli indiziati di delitti di mafia, terrorismo, violazioni della disciplina sulle armi, violenza sportiva, corruzione, atti persecutori[2].
Bel diverso l’inquadramento del presupposto giuridico dell’istituto della confisca intesa come misura di sicurezza a carattere patrimoniale che consiste nell’espropriazione a favore dello Stato dei “beni che servirono, o furono destinati, a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto[3]”.
Nonostante essa rientri tra le misure di sicurezza, è necessario evidenziare che la confisca si presenta affrancata dal presupposto della pericolosità sociale poiché è indirizzata ad anticipare la commissione di nuovi reati, mediante la sottrazione, a favore dello Stato, di beni che, restando nella disponibilità del colpevole di un reato, incoraggerebbero la commissione di successivi delitti. Quindi, il presupposto giustificativo della stessa e, pertanto, del coerente sequestro, che ne precorre transitoriamente gli effetti, è la “ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita” (Corte Cassazione Sezioni Unite 2.02.2015 n. 4880) fondata sulla sproporzionalità tra reddito dichiarato e valore dell’acquisto, laddove non si riesca a documentarne la regolare provenienza.
In egual modo, per quanto concerne l’istituto della cd. confisca allargata (art. 12-sexies D.L. n. 306/1992; art. 240bis c.p.) si fa riferimento alla presunzione che le risorse economiche, sproporzionate e non giustificate, reperite in capo al condannato scaturiscano dall’accumulazione di illecita ricchezza, di cui il soggetto non sia riuscito a giustificarne la provenienza lecita.
Pertanto, la Sentenza della Corte Costituzionale ha ridefinito il regime delle misure di prevenzione che, sulla base del principio espresso, non solo risultano non più applicabili ai soggetti di cui alla lett. a) dell’art. 1, comma 1, d.lgs. 159/2011 ma anche per coloro per i quali continuano ad essere previste le suddette misure, perché abitualmente dediti a delitti produttivi di profitti (ex art. 1, comma 1, lett. b) d.lgs 159/2011), i presupposti applicativi devono ritenersi mutati in forza della stessa pronuncia della Corte Costituzionale, dovendo consistere in:
- a) delitti commessi abitualmente dal soggetto;
b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui;
c) i quali a loro volta costituiscano, o abbiano costituito in una determinata epoca, l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito[4].
[1] Ufficio stampa della Corte Costituzionale, 27 Febbraio 2019
[2] Ufficio stampa della Corte Costituzionale, 27 Febbraio 2019
[3] Art. 240 Codice Penale
[4] Cassazione penale sez. I, 05/03/2019, n. 14629