L’amministratore di diritto della società non può essere ritenuto responsabile solo perché ha assunto la carica. Non sussiste, infatti, un obbligo generalizzato che imponga di vigilare sulla regolare osservanza di qualsiasi norma penale da parte dei soggetti comunque coinvolti nelle attività sociali.
La Corte di Cassazione con due pronunzie gemelle, la sentenza n. 43968 e la n. 43969, entrambe del 18 novembre 2022 – contenenti medesime conclusioni e medesimi principi riguardo alle responsabilità degli amministratori di diritto in società coinvolte in reati tributari – hanno affermato, nella sentenza n. 43969, il seguente principio di diritto: “… le condotte di sostituzione dei proventi illeciti punite dagli artt. 648 bis e 648 ter cod. pen. costituiscono un quid pluris rispetto alle semplici attività di evasione fiscale richiedendo la prova che attraverso le attività di quella specifica società siano state effettuate operazioni mirate a sostituire il profitto illecito dei reati fiscali commessi ad esempio mediante l’emissione od utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti. Ne deriva, pertanto, che la responsabilità a titolo di concorso sotto il profilo soggettivo può essere affermata soltanto in presenza di indici rivelatori del concorso morale e cioè della consapevolezza da parte dell’amministratore di diritto che la società verrà utilizzata anche per il compimento di azioni di quel particolare tipo, non bastando una generica consapevolezza della destinazione della struttura ad attività di elusione fiscale”.
Attenendoci sempre alla sentenza n. 43969/2022, si premette che di norma la figura dell’amministratore di diritto (inteso come la persona legalmente individuata e delegata per la gestione degli affari societari) coinciderebbe con l’amministratore di fatto, nel senso che la persona designata all’amministrazione sarebbe anche quella che, di fatto, amministra la società compiendo tutti gli atti necessari: ma per affermare ciò occorrerebbe dimostrare la totale complicità di tale figura nel disegno criminale.
L’accettazione della gestione altrui non può comportare automaticamente anche l’accettazione delle singole azioni delittuose commesse da altri, in assenza di qualsiasi elemento portato a dimostrazione della consapevolezza, in capo all’indagato, delle finalità elusive delle operazioni. Inoltre non sussiste, infatti, un obbligo generalizzato che imponga di vigilare sulla regolare osservanza di qualsiasi norma penale da parte dei soggetti comunque coinvolti nelle attività sociali.
La Suprema Corte, nel caso trattato, ha difatti voluto associarsi alle conclusioni cui era giunto il Tribunale della libertà, secondo il quale l’avere ricoperto, da parte dell’indagato, la carica di amministratore di diritto quale mero prestanome delle società utilizzate per la consumazione di una serie di condotte di riciclaggio e reimpiego di denaro, non poteva, di per sé, integrare la gravità indiziaria dei delitti contestati. Non vi era, infatti, alcuna prova della condivisione delle finalità elusive né della consapevolezza, al momento dell’accettazione della carica fittizia, della strumentalizzazione di quella società alla realizzazione di attività di riciclaggio e autoriciclaggio, per come poste in essere da parte degli amministratori di fatto della compagine. Questi ultimi, trovati in possesso della documentazione relativa alle società e anche dei codici bancari utilizzati per effettuare bonifici, risultavano coloro che esercitavano in concreto i poteri gestori.
Nel confermare tali argomentazioni gli Ermellini hanno richiamato quanto precedentemente affermato dalla giurisprudenza di Cassazione sul tema della responsabilità dell’amministratore di diritto.
E’ stato così osservato che, nei reati tributari, la prova del dolo specifico del prestanome può essere desunta dal complesso dei rapporti tra lo stesso e l’amministratore di fatto, nell’ambito dei quali assumono decisiva valenza la macroscopica illegalità dell’attività svolta e la consapevolezza di tale illegalità.
Secondo la Corte tali considerazioni riferite ai reati tributari – per i quali, peraltro, incombe sull’amministratore di diritto l’onere della regolare tenuta delle scritture e del pagamento delle imposte – dovevano a maggior ragione essere ribadite in relazione alla posizione del prestanome a fronte di condotte di riciclaggio e autoriciclaggio, compiute dai gestori di fatto della società.
Se l’amministratore di diritto è certamente obbligato alla tenuta delle scritture contabili e al regolare pagamento delle imposte, non sussiste invece né potrebbe altrimenti prevedersi – se non in violazione del principio di tassatività della norma penale – una previsione che impone all’amministratore delle persone giuridiche di vigilare sulla regolare osservanza di qualsiasi norma penale da parte dei soggetti comunque coinvolti nelle attività sociali.
Di conseguenza, la responsabilità a titolo di concorso sotto il profilo soggettivo può essere affermata solo in presenza di indici rivelatori del concorso morale, vale a dire della consapevolezza da parte dell’amministratore di diritto che la società verrà utilizzata anche per il compimento di azioni di quel particolare tipo, non essendo sufficiente una generica consapevolezza della destinazione della struttura ad attività di elusione fiscale.
Dunque, in assenza di uno specifico obbligo di vigilanza su determinati comportamenti, l’amministratore di diritto non risponde automaticamente degli illeciti commessi da altri soggetti coinvolti nelle attività sociali, salvo non venga provato il suo concorso nel reato.