Avv. Antonio Castiello

Dott. Vincenzo Caputo

Introduzione.

Il ddl anticorruzione (Camera dei Deputati 1189-B), approvato in via definitiva dal Parlamento poco prima dello spirare del 2018, introduce una serie di sostanziali novità volte a cercare di dare una risposta concreta all’endemico fenomeno corruttivo in Italia.

La legge – 3 gennaio 2019 n. 3, rubricata “misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonchè in materia di prescrizione del reato o in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici” – è stata pubblicata nella G.U. n.13 del 16.01.2019 ed entrerà in vigore il prossimo 31.01.2019 salvo alcune disposizioni in tema di processo penale e prescrizione che entreranno in vigore nel 2020.

Il legislatore, animato principalmente da un’insopprimibile e ormai cronica esigenza di fornire risposte al fenomeno della corruzione,  ha voluto inasprire le pene principali e  ampliare della sfera di operatività delle pene accessorie.

Tale prospettiva ha determinato, in riferimento al profilo della giustificazione della pena, ed alla sua ratio, un ritorno dominante delle istanze retributive, con buona pace della funzione general-preventiva cui gli ordinamenti moderni dovrebbero tendere attraverso l’adozione di strumenti di ordine sociale e culturale, oltre che di stampo legislativo.

Arrivando all’analisi concreta della riforma, può dirsi che l’intervento del legislatore segue delle linee direttrici ben chiare, tra le quali si segnalano:

– l’innalzamento dei minimi edittali per le pene principali e per quelle accessorie;

– l’introduzione di una nuova causa di non punibilità ex art. 323-ter c.p.;

– l’abrogazione del reato di millantato credito ed assorbimento dello stesso nel novellato reato di traffico di influenze illecite;

– la modifica dell’operatività della sospensione condizionale della pena rispetto alla sentenza di patteggiamento;

– nuovi presupposti per la concessione della riabilitazione in caso di condanna per reati commessi ai danni della P.A.

Dall’esame delle suddette novità, emerge che l’intervento del legislatore si riferisce alla corruzione impropria ex art. 318 c.p., in quanto la previsione normativa innalza il minimo ed il massimo edittale, rispettivamente in tre e otto anni rispetto agli attuali uno e sei.

Il nuovo DASPO per i corruttori.

Senz’altro, la novità principale introdotta dalla riforma è costituita dall’art. 32-ter c.p., novellato al secondo comma.

Tale disposizione, disciplinante l’incapacità di contrattare con la P.A. in caso di condanna per reati commessi contro la stessa prevedeva, ante riforma, uno spazio edittale, compreso tra un minimo di un anno ed un massimo di cinque anni, entro il quale il giudice poteva esercitare il proprio potere discrezionale nell’irrogazione della sanzione.

Tale previsione è stata integralmente sostituita dalla nuova legge anticorruzione, la quale dispone che l’incapacità di contrattare con la P.A., da cui scaturisce il divieto di concludere contratti con la stessa, salvo che per le prestazioni di un pubblico servizio, “ha una durata di cinque anni. Nondimeno, la condanna a pena superiore ai due anni di reclusione per i delitti previsti dagli artt. 314, primo comma, 316-bis aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 7, 317,318,319,319-bis,319-ter,319-quater, primo comma, 320, 321,322,322 bis, 323, secondo comma e 346-bis, importa il divieto in perpetuo di concludere contratti con la p.a., salvo che per ottenere prestazioni di pubblico servizio”.

È evidente, dunque, che la statuizione contenuta nel nuovo secondo comma dell’art. 32-ter c.p., rispecchia la volontà del legislatore tesa a fornire una risposta punitiva molto incisiva rispetto alla normativa previgente, considerato che l’operatività dell’incapacità di contrattare con la P.A., nella vecchia formula dell’art. 32-ter c.p., non poteva superare i cinque anni e senza possibilità di inasprimento della sanzione.

Si è così introdotto il “divieto in perpetuo di concludere contratti con la P.A.”, il c.d. DASPO a vita per i corrotti, la cui applicazione è subordinata all’irrogazione di una pena superiore a due anni di reclusione.

Per quanto concerne, invece, pene principali inferiori a due anni di reclusione, il legislatore ha previsto che l’operatività del divieto di contrattare con la P.A. debba avere una durata di cinque anni, cristallizzando la sanzione, pertanto, sia nel minimo che nel massimo.

Ciò induce a delle riflessioni.

L’innalzamento delle soglie punitive, operato nell’ottica di produrre un effetto deterrente rispetto alla commissione di reati contro la P.A., presta il fianco a rilievi critici, considerato che la dottrina più avveduta (tra cui spicca la posizione del compianto Giorgio Santacroce, il quale, interrogandosi sull’efficacia della legge Fini-Giovanardi, criticava la tendenza del legislatore ad inasprire le pene detentive) muove forti obiezioni alla tesi secondo la quale all’aggravamento consegua in ogni caso un effetto deterrente.

Non va sottaciuta altresì la preoccupazione degli effetti derivanti dal meccanismo applicativo dell’art. 32-ter c.p.

Il dubbio sorge dal concreto pericolo che, nella pratica, possa instaurarsi un vero e proprio automatismo nell’applicazione della previsione normativa citata, giacché quasi tutti i reati contemplati dalla stessa superano, nel minimo, i due anni di reclusione.

Il rischio concreto, dunque, è che tale automatismo possa configurare un sistema dove il margine di discrezionalità del giudice, elemento essenziale ed imprescindibile per diversificare la risposta punitiva, potrebbe essere completamente azzerato.

Si attende, pertanto, lo sviluppo giurisprudenziale sul punto e la prassi adoperata dai Tribunali per un’analisi più profonda della questione.

Modifiche al D.Lgs. 231/2001.

Una prima modifica attiene all’introduzione, tra i reati presupposto, dell’articolo 346 nella nuova formulazione.

In secondo luogo, l’innalzamento delle soglie punitive, peraltro, ha interessato anche le sanzioni interdittive previste dal d. lgs. 231/2001, disciplinante la responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica.

Il legislatore, in tal senso, con l’art. 6 del ddl in commento, ha modificato l’art. 25 comma 5 del d. lgs. 231/2001, innalzando la durata minima e massima delle sanzioni interdittive disciplinate dall’art. 9 comma 2 dello stesso decreto legislativo, che ora è fissata rispettivamente in cinque e dieci anni.

La riforma si pone in un rapporto di contiguità con lo stesso intervento effettuato nei confronti delle persone fisiche (art. 32-ter), con l’inasprimento delle sanzioni interdittive nel caso di responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di responsabilità giuridica, in relazione alla commissione dei delitti di concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità e corruzione.

Per una necessità di coordinamento, tra l’altro, viene modificato anche l’art. 13 del d. lgs. 231/2001, con la finalità di chiarire che la durata delle sanzioni interdittive ivi prevista in via generale (e cioè non inferiori a tre mesi e non superiori a due anni), trova una deroga nelle disposizioni di cui all’art. 25, comma 5 dello stesso decreto legislativo.

Come si può evincere dal mutato quadro normativo, il legislatore, tuttavia, se da un lato ha innalzato le soglie punitive delle sanzioni interdittive per gli enti nel caso in cui commettano i reati di concussione, corruzione ed induzione indebita a dare o promettere utilità, dall’altro non ha previsto il DASPO a vita nell’ipotesi in cui gli enti commettano i reati sopra indicati.

Orbene, anche sotto questo profilo si tratta di scelte di politica legislativa che, tuttavia, prestano il fianco a considerazioni critiche: sembrerebbe contraddittorio, infatti, punire a vita esclusivamente le persone fisiche e non anche gli enti.

Il d. lgs. 231/2001 è stato concepito proprio per rispondere al fenomeno dei reati commessi dalle persone giuridiche e, considerato che il legislatore ha intrapreso, con tale riforma, un percorso solcato da esigenze retributive, avrebbe dovuto, coerentemente con la scelta adottata per le persone fisiche, prevedere l’operatività della sanzione dell’interdizione perpetua anche per gli enti.

Collaborazione del reo e causa di non punibilità.

Ulteriore aspetto peculiare della riforma è l’introduzione di una nuova causa di non punibilità prevista dall’art. 323-ter c.p., la quale potrebbe trovare larga applicazione, in considerazione dell’innalzamento delle pene previsto dal legislatore.

Tale disposizione sancisce la non punibilità del soggetto che, avendo commesso uno dei reati previsti dagli artt. 318, 319, 319-quater, 320, 321, 346- bis e 322-bis, limitatamente ai delitti di corruzione indebita ivi indicati, prima dell’iscrizione a suo carico della notizia di reato o comunque entro sei mesi dalla commissione del fatto “lo denuncia volontariamente e fornisce indicazioni utili per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili”.

Il reo, per non incorrere nella penale responsabilità, non solo dovrà denunciare il fatto entro i termini appena indicati, ma la sua non punibilità sarà subordinata “alla messa a disposizione dell’utilità percepita o, in caso di impossibilità, di una somma di denaro di valore equivalente ovvero all’indicazione di elementi utili a individuarne il beneficiario effettivo”, e ciò sempre nei termini precedentemente indicati.

Si tratta, dunque, di una novità molto rilevante nel panorama dei reati contro la P.A.: il legislatore, con tale intervento, si prefigge l’obiettivo di superare quel clima di omertà rispetto alla commissione dei reati di corruzione che, essendo per lo più fattispecie a carattere bilaterale che   presuppongono necessariamente due condotte, sono difficili da stanare.

Sotto altro punto di vista, inoltre, l’introduzione di tale causa di non punibilità potrebbe avere l’effetto di prevenire il fenomeno corruttivo, in quanto l’ingresso nello scambio illecito potrebbe diventare insicuro e rischioso, non potendo più i soggetti coinvolti fare affidamento sul comune interesse a tacere, posto che uno dei soggetti coinvolti nella vicenda ben potrebbe usufruire dell’art. 323- ter c.p. nei limiti temporali in esso indicati.

Anche in questo caso, si attende lo sviluppo della giurisprudenza dei Tribunali per un’analisi più profonda.

Sparisce il millantato credito. Rimane solo il traffico di influenze illecite.

In ultimo, merita particolare menzione l’abrogazione del reato di millantato credito, essendo lo stesso assorbito nella nuova fattispecie del delitto di traffico di influenze illecite.

Tale intervento normativo si è reso necessario soprattutto alla luce delle difficoltà interpretative e di coordinamento tra le due fattispecie, difficoltà che, peraltro, hanno spesso investito la giurisprudenza di legittimità, la quale è risultata essere ondivaga sul punto,  proprio in ragione del confine labile intercorrente tra i due reati.

Con due recenti sentenze, la n. 37463/17 e la n. 53332/17, la VI Sezione della Suprema Corte di Cassazione ha cercato di risolvere i contrasti interpretativi individuando l’elemento discretivo intercorrente tra i due delitti: il millantato credito, infatti, secondo il dictum della Suprema Corte, si differenzia dal traffico di influenze illecite di cui all’art. 346 bis, in quanto presuppone che non esista il credito, né la relazione con il P.U., né tantomeno l’influenza; il traffico di influenze illecite, invece, postula una  situazione fattuale nella quale la relazione è esistente, al pari di una qualche capacità di condizionare o, comunque, di orientare la condotta del pubblico ufficiale.

Tale discrimen appare, però, superato alla luce della riforma, posto che la stessa punisce la condotta di colui che indebitamente fa da mediatore, a prescindere dalla reale o supposta relazione che il faccendiere abbia con il pubblico ufficiale.

La novella, dunque, anche sulla spinta delle Convenzioni internazionali, che prescrivono  agli Stati di dotarsi di strumenti atti a combattere fenomeni di influenze illecite all’interno della P.A.,  ha mutato lo scenario previgente, prevedendo, al primo comma  del nuovo art. 346- bis c.p., che “chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli artt. 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all’art. 322- bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altre utilità, come prezzo della propria influenza illecita, reale o supposta, verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’art. 322-bis, ovvero per remunerarlo in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, è punito con la pena della reclusione da uno a cinque anni”.

La ratio ispiratrice di tale fattispecie risiede, pertanto, nell’esigenza di tutelare l’onorabilità, il prestigio e la esteriore credibilità della P.A. da quelle condotte invasive di soggetti (c.d. faccendieri) che assumano di poter condizionare i pubblici funzionari.

Il novellato art. 346-bis c.p., infatti, non opera distinzioni tra mediazione reale e supposta, ma mira a prevenire il pericolo che la dazione di indebite utilità al c.d. “faccendiere”, si traduca in un contatto con i pubblici ufficiali e nella possibilità di una reale corruzione di questi ultimi, con la prospettiva di un immediato guadagno, specie in contesti a corruzione diffusa come quelli presenti nel nostro Paese.

Lo sforzo del legislatore di andare a ridefinire i contorni di tale fattispecie delittuosa, dunque, sembra essere meritorio sotto il profilo della eliminazione della fattispecie di millantato credito che risultava essere affine, se non addirittura sovrapponibile, in alcuni casi, all’ipotesi di cui all’art. 346-bis c.p.

Sotto altro profilo, tuttavia, il legislatore avrebbe potuto fare uno sforzo ulteriore, teso a definire i contorni della mediazione del “faccendiere”.

Il problema, in altre parole, risiede nell’individuazione della mediazione “indebita”: quando e in che termini può definirsi “indebita” un’attività che, peraltro, se attuata con trasparenza, non è di per sé illegale?

A tal fine, era auspicabile un intervento più incisivo del legislatore finalizzato ad una più chiara tipizzazione della fattispecie.

La norma, sebbene riformata, lascia spazio ad un margine di ampissima discrezionalità del giudice, nonostante tale potere, elemento imprescindibile di uno stato di diritto, debba rimanere vincolato ai parametri previsti dalla legge, stante l’esigenza primaria dell’ordinamento giuridico di garantire la certezza del diritto.

Non resta, pertanto, che attendere lo sviluppo giurisprudenziale sul punto per capire effettivamente, sul piano della prassi applicativa, come i magistrati andranno a ridefinire i contorni della fattispecie di cui al novellato art. 346-bis c.p.

Legge 3 del 2019